Il Pollo al Curry e… un bicchiere decisamente aromatico
Da una prospettiva enogastronomica, essere italiani è, oggettivamente, una fortuna: contiamo su materie prime di livello e su di un’offerta culinaria di innegabile spessore che, al tempo stesso, ha il pregio della diversificazione, lasciando all’avventore l’imbarazzo della scelta. Eppure, nonostante una potenziale autosufficienza, a volte prevale l’impulso di evadere dall’ordinario per abbracciare gusti, sapori e sensazioni differenti. In questi casi, spesso l’italiano guarda all’Asia, uno dei principali soccorritori al momento di soddisfare languorini…esotici. Non a caso, infatti, l’Italia degli ultimi anni è stata teatro di una notevole diffusione di ristoranti “filo-orientali”, figlia, in parte, di una fiutata profittabilità e in parte, forse, della percezione di una tendenziale saturazione nell’offerta di cucina autoctona.
Tra i vari “generi” , anche se offuscata dal dilagare della gastronomia nipponica, vi è senz’altro la cucina indiana, per molti ai vertici del gradimento quando il tema è la cultura culinaria orientale. Cucina molto caratterizzante, con un profilo chiaro e definito, che fa dell’uso delle spezie la propria coperta di Linus. Ingredienti meravigliosi, che possono contare su una duplice valenza: gustativa, ma anche salutistica, grazie ad innumerevoli proprietà benefiche per la salute.
Non è mistero che sia proprio una spezia l’elemento caratterizzante di uno dei piatti più noti della cucina indiana: il Pollo al Curry. Svelando un segreto di Pulcinella (ma forse nemmeno troppo), quello che comunemente è noto come Curry – parola, in realtà, d’estrazione anglofona – in India è conosciuto come “Masala” – letteralmente, “spezia”. Per di più, il Curry non è nemmeno una spezia in senso stretto, bensì una miscela di spezie diverse, tra cui figurano cumino, fieno greco e curcuma (che dona al mix la caratteristica colorazione giallastra).
Tornando alla ricetta, il Pollo al Curry, nel tempo (e, soprattutto, nello spazio) ha trovato larga diffusione ed apprezzamento. Come spesso accade, la sua propagazione capillare, in diverse parti del mondo, ha portato la ricetta ad assorbire, qui e lì, tecniche e tradizioni delle cucine locali, acquisendo una configurazione metaforicamente assimilabile ad un “gastronomico cubo di Rubik”.
Alcune ricette prevedono la marinatura del pollo in un mix di yogurt greco e curry (ops, Masala) tostato, altre, invece, passano direttamente alla rosolatura del pollo in olio/burro, dopo avervi preventivamente indorato un trito di cipolla.
Da qui, si possono imboccare vari sentieri, ma le vie più battute sono due: una prevede l’aggiunta di acqua o brodo, che, oltre a conferire morbidezza e delicatezza al pollo, donerà al piatto un intingolo piuttosto fluido e, gustativamente, intenso; l’altra, invece, prevede la cottura del pollo nel latte di cocco, che apporterà maggiore densità, cambiando fisionomia al profilo gustativo. Il tutto, a prescindere dallo schieramento preferito, andrà accompagnato da un contorno di riso basmathi.
Supponendo si scelga d’evitare la marinatura e di procedere alla cottura in acqua/brodo, si dovrà fronteggiare un piatto dalla struttura mediamente articolata, con pienezza di bocca ed intensa speziatura, con una succulenza evidente. Va ricercato, dunque, un vino dalla decisa intensità aromatica, con tenore alcolico adeguato e, nel caso di un rosso, dalla tannicità non eccessiva e di pregevole fattura (pena un probabile conflitto con l’importante bagaglio speziato del piatto).
Una buona opzione è il Gewürztraminer, letteralmente “speziato di Termeno”, etimologia che ne svela le origini altoatesine, sebbene esprima il meglio di se nella regione francese dell’Alsazia. È una varietà appartenente alla cerchia dei vitigni aromatici (così chiamati perché naturalmente ricchi in terpeni), che con la sua intensità sarà in grado di bilanciare la speziatura del piatto. Attenzione al grado alcolico, che non dovrà essere troppo tenue, e all’annata di riferimento, preferendo millesimi poco datati, per evitare eccessivi “affossamenti” dell’acidità in un vitigno che, già di per se, non brilla in questo campo.
Pescando tra i rossi, un’ottima alternativa è il Ruché di Castagnole Monferrato, una delle numerose Docg del Piemonte. La denominazione abbraccia un areale interamente collocato nella provincia di Asti, basandosi sul semi-aromatico Ruché, vitigno autoctono della zona che, nella sua tipicità, si esprime in note di frutti di bosco (tendenzialmente lamponi), rosa canina e speziatura dolce, corredo perfetto per il matrimonio con la nostra ricetta.
FONTE: https://www.ansa.it/