Quanto pesa il fenomeno del falso Made in Italy in un settore, come quello agroalimentare, che è il secondo comparto manifatturiero nazionale per l’export ed è quello che ha meglio affrontato la crisi?
Il settore dell’agroalimentare italiano si caratterizza per la presenza di moltissime imprese di piccole dimensioni e qualche grandissima realtà che opera su scala globale; è il secondo comparto manifatturiero per l’export ed è quello che ha meglio affrontato la crisi.
A livello mondiale, l’Italia primeggia nell’esportazione di cibi e bevande tipiche della dieta mediterranea, e in particolare di pasta, vini, cioccolata: ad esempio, l’export del vino ha raggiunto nel 2014 i 5,11 miliardi di euro (+1,4% tra 2013 e 2014), con il surplus più alto del pianeta per quanto riguarda le paste alimentari (2,7 miliardi), le mele (910 milioni), i prodotti di pasticceria e panetteria (756 milioni), le uve fresche (724 milioni) e i gelati (127 milioni).
Anche se lo zoccolo duro delle esportazioni agroalimentari italiane rimane costituito dai mercati tradizionali europei e da quelli del Nord America, si registra una forte crescita delle esportazioni verso i mercati in espansione del cosiddetto BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) complice l’avvento della middle class cinese (fenomeno che ha determinato, ad esempio, l’aumento delle vendite di pasta, olio, vino, Grana Padano e Parmigiano Reggiano e prosciutto crudo, anche se i “piazzamenti” in Cina di questi beni risultano ancora inferiori rispetto a quelli di altri paesi europei che in Europa rimangono dietro all’Italianelle “classifiche” dei rispettivi settori merceologici: in altre parole, l’Italia rimane ancora indietro per “poca intraprendenza” e per mancanza di investimenti).
L’affermazione del Made in Italy agroalimentare nei mercati internazionali, però incontra dei seri ostacoli a causa del fenomeno della contraffazione e del c.d. italian sounding, caratterizzato dal moltiplicarsi di prodotti imitati con denominazioni o immagini che si limitano a evocare il nome del nostro Paese, senza rappresentarne le caratteristiche di origine e naturalmente ben lungi dall’avere titolo per potersi fregiare del marchio “made in Italy”.
Si tratta di un fenomeno così diffuso da arrivare a sottrarre al nostro export, secondo le stime, ben 60 miliardi di euro annui, il doppio del fatturato delle vendite all’estero dalle imprese italiane. E non si tratta solo di tutela della qualità dell’immagine del prodotto italiano nel mondo, poiché, come si scrive già qualche anno, sta emergendo sempre di più la necessità di proteggere lo stesso consumatore italiano in Italia, dall’immissione l’immissione sul mercato di prodotti che di italiano, spesso, hanno solo l’impresa venditrice.
Per fronteggiare il fenomeno del falso Made in Italy sicuramente è importante l’attività di contrasto istituzionale, il sistema dei controlli, ma un ulteriore strumento potrebbe essere dato da un maggior sostegno al vero Made in Italy agroalimentare nell’ambito del mercato globale. Una sfida non di poco conto, che richiede lo sviluppo di una stretta collaborazione tra istituzioni pubbliche e sistema delle imprese, nonché un forte impegno del nostro Paese in campo internazionale, laddove, accanto ai citati fenomeni imitativi si pone il singolare atteggiamento di liberalizzazione registrato in seno al WTO che consente, ad esempio, la produzione del vino Chianti in Australia o del finto Parmigiano in Argentina (oltre al “Reggianito” argentino, si pensi al “Parmesao” brasiliano nonché al “Grated Parmesan” e al “Grande Parmesan” degli USA.
Marchio Made in Italy
Ma facciamo un passo indietro. Con l’espressione “made in Italy” si indica un marchio che sintetizza i valori rappresentativi della qualità produttiva, della creatività e dello stile italiano, identificando nel nostro Paese il luogo di fabbricazione di ciascun prodotto e accompagnandolo così nella fase di commercializzazione.
Il “made in Italy” è, dunque, un marchio d’origine, un’indicazione che, apposta sul prodotto e/o sulla confezione, attribuisce un’origine italiana, permettendo così al consumatore di effettuare una
distinzione tra le merci nazionali e quelle importate.
Tale marchio può essere applicato allorquando il prodotto risulta realizzato:
interamente in Italia:
in parte in Italia e in parte in altri Stati.
Mentre nel primo caso non vi sono dubbi sull’applicabilità del “made in Italy”, nel secondo caso si deve ricorrere al criterio dell’origine doganale “non preferenziale”.
A tale riguardo, si rammenta che il concetto d’origine in ambito doganale ha un’accezione particolare, laddove si distingue tra “origine preferenziale” e “origine non preferenziale”. Infatti, mentre, in via generale, l’origine di un prodotto indica il luogo in cui la materia prima è nata oppure è stata allevata/coltivata/pescata. In ambito doganale, invece, si fa riferimento all’origine del prodotto al fine del pagamento del dazio sulla base di accordi doganali preferenziali (Unione europea) o non preferenziali (paesi terzi).
Proprio per questo motivo si distingue tra:
1. origine doganale “preferenziale” (riguarda i prodotti, che soddisfano determinati requisiti, importati da alcuni Paesi e comporta la concessione di benefici daziari all’importazione: tale “trattamento preferenziale” si basa in genere su di un accordo stretto dall’Ue con i vari Paesi esteri per lo scambio di determinati prodotti riconosciuti quali “originari” di uno degli Stati contraenti);
2. origine doganale “non preferenziale” (intesa quale luogo di produzione del bene o luogo dove il prodotto ha subito l’ultima sostanziale trasformazione: quindi, per acquisire l’origine non preferenziale italiana un bene deve subire una trasformazione sostanziale sul territorio italiano, a prescindere dalle eventuali percentuali di merce nazionale o estera impiegata nella produzione).
Pertanto, in accordo col Codice Doganale Comunitario Aggiornato – ex art. 36, Reg. (Ce) 450/2008, sull’origine doganale non preferenziale delle merci – un prodotto può essere considerato di origine italiana e riportare l’indicazione “Made in Italy” allorquando l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale sia avvenuta nel nostro Paese: in concreto, quindi, potrà essere impiegato il marchio “Made in Italy” anche se tutte le parti del prodotto sono state materialmente fabbricate all’estero e vengono solo assemblate in Italia, così come pure tale marchio potrà essere legittimamente apposto sui prodotti assemblati all’estero con parti provenienti dall’Italia a patto, però, che i semilavorati spediti all’estero non vengano sottoposti a trasformazioni tali da fargli acquisire l‘origine non preferenziale di quel Paese.
FONTE: https://www.teknoring.com/