Promuovere il made in Italy, conquistare nuovi mercati ed essere sempre più attenti alla sostenibilità. L’intervista a Sebastiano Grandi dell’Università Cattolica di Piacenza.
Affrontare i mercati in modo unitario. Educare alla qualità delle produzioni italiane e promuovere un vero marchio di Italian food, ma anche accelerare verso una cultura di mercato, avendo già una fortissima cultura di prodotto. E poi guardare alle dinamiche legate al benessere animale, all’impronta ecologica, senza dimenticare che il prodotto necessita di un racconto che lo identifichi, lo renda riconoscibile e ben codificato.
Sono alcuni dei consigli per crescere che Sebastiano Grandi, docente di Shopper & Consumer marketing e brand management dell’Università Cattolica di Piacenza, dove è coordinatore della laurea magistrale in Food marketing e Strategie commerciali, ha indicato in un’intervista ad AgroNotizie. Perché oggi più che mai, anche in agricoltura, non basta più produrre. Bisogna anche saper vendere. Spiegando i punti di forza del made in Italy, a partire dalla biodiversità, che per essere apprezzata deve prima essere divulgata.
Professor Grandi, quali azioni dovrebbe intraprendere il settore agricolo e quello agroalimentare per promuovere il made in Italy?
“Certamente si potrebbero individuare diverse azioni ma vorrei concentrare l’attenzione su quelle che, secondo me, possono essere considerate delle priorità.
La prima priorità è relativa all’intero settore agricolo, che deve essere in grado di proporsi in modo unitario sui mercati interni e soprattutto esteri. Certamente noi andiamo giustamente orgogliosi delle nostre diversità, delle nostre territorialità, delle centinaia di denominazione di origine e delle oltre trecento tipologie di pomodori e di mele, per citarne solo alcune. Questo patrimonio di biodiversità rischia però di diventare perlopiù incomprensibile, se non addirittura inutile, per un pubblico lontano e mediamente disinformato.
La strategia deve essere dunque quella di trovare forme di comunicazione e di valorizzazione collettiva che prescindono dalle invidie personali e territoriali per parlare della qualità delle produzioni italiane e per educare i cittadini di tutto il mondo a capire meglio i valori delle coltivazioni e delle lavorazioni italiane. Penso da un lato a un vero marchio di Italian food conoscibile, riconoscibile e ricordabile che solo i prodotti veramente italiani possono utilizzare e dall’altro alla creazione di una piattaforma di comunicazione globale, che parla di tutti i prodotti alimentari italiani in modo diretto, innovativo, giovane, informale ma autorevole in tutte le lingue del mondo.
La seconda priorità, invece, è legata a quello che ciascuna delle imprese italiane del settore agricolo e alimentare in generale dovrebbe fare di più e meglio. E si tratta di maturare una vera e autentica cultura di mercato, oltre che mantenere la tradizionale e fortissima cultura di prodotto. Avere una cultura di mercato significa pensare che i prodotti che si coltivano e che si producono hanno senso se vengono capiti ed acquistati da un cliente. Significa avere la consapevolezza che è più importante riuscire a vendere un prodotto ad un centesimo di più piuttosto che riuscire a produrlo spendendo un centesimo di meno. Significa che bisogna pensare ai consumatori e farsi delle domande piuttosto che compiacersi delle proprie risposte. Significa che per posizionare bene, confezionare bene, vendere bene e comunicare bene i propri prodotti non bisogna fare tutto in casa e chiedere al nipote sedicenne che sa smanettare con il computer, ma bisogna affidarsi a persone serie che sanno fare bene il proprio lavoro. Significa che ogni euro speso per parlare di sé o per presentare i propri prodotti è un euro investito per crescere e non buttato al vento”.
Quali soluzioni possono essere più efficaci per conquistare mercati in espansione (Cina, Sud Est Asiatico, Africa) o più maturi, come il Nord America o l’Europa?
“Al di là del livello di ricchezza o del valore del Pil dei diversi paesi in cui entrare con i prodotti italiani, le scelte di comunicazione nei mercati esteri sono condizionate dalla valutazione di tre elementi principali. Il primo elemento è l’affinità culturale del paese estero rispetto ai prodotti e alla tradizione enogastronomica italiana. Minore è la vicinanza culturale, maggiore è la necessità di adottare strategie di comunicazione e un approccio basati sulla conoscenza diretta delle persone e dei prodotti; in questi casi ad esempio è ancora determinante il canale delle fiere di settore.
Il secondo elemento è legato alla struttura dei media del mercato di destinazione. In altre parole, maggiore è la diffusione e la concentrazione degli operatori negli strumenti di comunicazione di massa, maggiore è la possibilità di comunicare i brand e i prodotti in modo sistematico e coordinato.
Il terzo elemento, che negli ultimi anni è diventato il più importante, è la struttura del sistema distributivo. In tutto il mondo le persone scelgono prima dove comprare e poi cosa comprare. Questo significa che i luoghi di acquisto hanno uno straordinario potere di comunicazione e possono diventare dei luoghi di educazione e di consapevolezza oltre che di scelta. In questo senso, avere a che fare con paesi in cui sono presenti format distributivi moderni e gruppi commerciali concentrati consente di poter sviluppare con questi retailer collaborazioni molto importanti per parlare di prodotti e di marche italiane a un consumatore internazionale”.
Vi sono aspetti che via via interessano sempre di più i consumatori e li orientano nei loro acquisti: la sostenibilità ambientale, la carbon footprint o water footprint, il rispetto del benessere animale, il rispetto delle norme sull’occupazione dei lavoratori. Sono aspetti comunicati a sufficienza o no?
“In Italia negli ultimi anni si stanno sviluppando opportunità di mercato interessanti per le marche e le aziende che hanno consolidato un posizionamento coerente rispetto alla problematica della sostenibilità economica, alimentare e ambientale. Tale attenzione appare più legata, in questo momento, a un’esigenza della domanda piuttosto che a una reale spinta da parte delle imprese e delle istituzioni. Infatti, le tematiche ambientali, e di responsabilità sociale di impresa, nella gran parte delle realtà aziendali italiane sono gestite marginalmente e/o poco comunicate al consumatore finale. Non v’è dubbio, però, che nei prossimi anni, nel settore agroalimentare e nel settore energetico, queste problematiche giocheranno un ruolo determinante nel definire i posizionamenti e il successo di mercato delle imprese”.
Quando parliamo di brand marketing molto spesso ci riferiamo all’alimentare. Ci possono essere azioni efficaci che anche le imprese agricole dovrebbero adottare?
“Le regole del branding sono le stesse per i prodotti agricoli e per i prodotti alimentari. E, in estrema sintesi, sono principalmente tre. La prima regola è che occorre definire un posizionamento, cioè una idea e/o un codice di comunicazione, e continuare a ripeterlo in modo coerente e semplice. Fondamentalmente il branding è una coerenza ripetuta nel tempo. Non bisogna mai dare per scontato che il consumatore riconosca o ricordi il posizionamento di una marca nel tempo, ma anzi bisogna essere consapevoli che la grande quantità di informazioni con cui è bombardato possa ridurre la sua capacità di memorizzazione dei contenuti delle marche.
La seconda regola è che non bisogna sottovalutare la potenza di un bel racconto, purché sia vero e verosimile. Negli ultimi anni si è parlato molto di storytelling e, certamente, la capacità narrativa di una marca è importante per il suo successo, ma non basta; occorre che la marca trasudi verità e affinità con il consumatore. La terza regola è quella della semplicità e della rilevanza. La vita delle persone è già sufficientemente complessa e non è tollerabile che anche i prodotti e le marche possano contribuire a complicarla ulteriormente. Le persone si aspettano dalle marche soluzioni semplici a bisogni rilevanti o percepiti come tali”.
L’Università Cattolica di Piacenza propone un corso di Food marketing e strategie commerciali. Quanto dura e che prospettive offre? Quali sono le figure maggiormente richieste dall’agroalimentare italiano in questi ambiti e per quali ruoli?
“Da quattro anni a questa parte l’Università Cattolica di Piacenza ha sviluppato un nuovo percorso di laurea magistrale in Food marketing e Strategie commerciali, rivolto a ragazzi che hanno già conseguito la laurea triennale, nato dalla collaborazione tra la Facoltà di Economia e Giurisprudenza e la Facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali. Si tratta di un corso molto qualificante con alcune caratteristiche molto distintive. In primo luogo perché favorisce una preparazione trasversale, facendo sintesi tra competenze di prodotto, come ad esempio filiere agroalimentari, certificazioni, economia della qualità, e competenze di mercato, fra le quali comunicazione, canali di vendita, internazionalizzazione, marketing digitale, tecniche di vendite.
In secondo luogo perché nasce dalla forte collaborazione con il mondo produttivo e aziendale.
Decine di manager di imprese importanti vengono a condividere in aula le proprie esperienze d’impresa. Per citarne alcune parliamo di Barilla, Ferrero, Esselunga, L’Oréal, Danone, CocaCola, Campari, Conad, Coop, Nestlè, Henkel, Shiseido. I contenuti della didattica sono molto influenzati dall’attività di ricerca applicata che viene realizzata nell’ambito del Centro di ricerca Rem Lab (Centro di ricerca su retailing e marketing).
In terzo luogo si tratta di un corso di laurea molto basato sulla cultura del fare più che del semplice sapere. In altre parole l’approccio didattico è poco nozionistico e più legato alla esperienza reale. Per questo ogni anno vengono organizzati dei Business game in collaborazione con alcune aziende che mettono alla prova gli studenti su problematiche reali e attuali di management (caso Ferrero-Esselunga, caso Barilla, caso Lindt, caso Nestlè, caso Parmalat, caso Bonduelle, caso Henkel, caso L’Oréal, etc.). Le proposte dei ragazzi, che lavorano in team, vengono poi valutate in modo professionale da giurie composte dai manager stessi. Ovviamente tutto questo con l’obiettivo di preparare nel migliore dei modi gli studenti per entrare rapidamente e con successo nel mercato del lavoro, che è poi l’obiettivo finale del nostro corso di laurea. E, fino a questo momento, la qualità e la velocità di inserimento professionale sono risultati particolarmente positivi”.
Fonte: Agronotizie
Autore: Matteo Bernardelli